Alzheimer: il vaccino potrebbe rallentare la malattia

E’ possibile che il vaccino possa in qualche modo prevenire o quantomeno rallentare la malattia dell’Alzheimer? Scopriamolo.

Veramente un vaccino potrebbe prevenire o quantomeno aiutare contro la malattia dell’Alzheimer? Ad averlo confermato è stata la ricerca preliminare che è stata presentata all’American Heart Association’s Basic Cardiovascular Sciences Scientific Sessions 2023, a Boston.

Stando alle ricerche che sono state effettuate pare che questo nuovo farmaco sia in grado di colpire le cellule cerebrali infiammate associate alla malattia, quindi potrebbe rappresentare la chiave per prevenirla o quantomeno modificarne il decorso.

Il nome del vaccino è Sagp, prende il nome proprio dal tag molecolare che è presente sulle cellule senescenti, ovvero le unità biologiche vecchie e che possono anche essere potenzialmente tossiche: si tratta di un preparato logico che in passato era già testato con successo in Giappone sui topi nell’ambito di ricerche medico-scientifiche contro aterosclerosi e il diabete di tipo 2. Ma approfondiamo il discorso.

Alzheimer: il nuovo test ha portato a dei risultati finora mai visti

Insomma non ci sono davvero dubbi, gli scienziati che sono a lavoro su questo vaccino, sono certi di quello che hanno detto e ad ulteriore riprova ci stanno anche i test effettuati su dei topi.

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“Dopo la vaccinazione, i roditori presentavano meno placche di sostanza tossica beta-amiloide e meno infiammazione nel tessuto cerebrale, con miglioramenti evidenti nel comportamento. È stata riscontrata anche una riduzione di altri biomarcatori infiammatori, con un miglioramento dell’infiammazione cerebrale” hanno scritto nella nota ufficiale.

Pare infatti che fino ad ora si siano registrati dei risultati davvero mia visti che sembrano aprire la porta a qualcosa di davvero promettente anche rispetto ai vaccini che in passato sono stati testati.

Ovviamente la prova definitiva si avrà solo quando la sperimentazione si farà anche sull’uomo: “Se il vaccino si dimostrasse efficace negli esseri umani, rappresenterebbe un grande passo avanti per ritardare la progressione della malattia o addirittura per prevenirne l’insorgenza” hanno poi concluso gli esperti.