Una lite in famiglia ha portato a una serie di azioni, legali e non, che hanno portato a una vera e propria rottura
Se il padre si disinteressa totalmente dei figli, sia dal punto di vista affettivo che economico, questi possono chiedere di cambiare il proprio cognome con quello materno. È la storia di una ragazza che, dopo aver sofferto per anni per l’assenza del papà, il quale la ignorava tanto da toglierle il saluto, ha deciso di cancellare dalla sua carta di identità il nome di famiglia che lui le aveva tramandato. Il 22 maggio del 2018 la Prefettura di Prato aveva respinto la richiesta, ma – dopo un ricorso davanti ai giudici amministrativi – prima il Tar della Toscana (con sentenza del 26 febbraio 2019) e poi il Consiglio di Stato (con sentenza del 19 settembre scorso) hanno dato ragione alla ragazza.
Nella sentenza di secondo grado si legge: “Il cambio di cognome, in pratica, costituisce, per la richiedente lo strumento per recidere un legame solo di forma, impostole per legge, che negli anni ha pesato sulla sua condizione personale, in quanto del tutto estraneo alla sua identità personale“. La ragazza, facendo ricorso al Tar, ha ripercorso tutta la sua vicenda personale: “Ha descritto la sofferenza derivante dall’incuria e dall’assenza del padre; il disagio derivante dal suo cognome, ritenuto ad essa estraneo e per di più ridicolo, oggetto di dileggio in ambito scolastico; il disinteresse del padre nei suoi confronti, al punto di privarla perfino del saluto“, spiegano i magistrati amministrativi di secondo grado.
Le conseguenze di una lite in famiglia
Il ministero degli Interni ha ribadito il principio dell’eccezionalità del cambio di cognome e l’esigenza di una “valida” giustificazione, sottolineando quindi la mancanza di elementi probatori a fondamento della richiesta della ragazza. La madre, però, “ha precisato di non aver conservato atti processuali risalenti a tanto tempo fa; confermando, per il resto, che il padre non si è mai occupato della figlia, né dal punto di vista materiale, né affettivo“. Ha quindi poi chiarito di non aver più intrapreso azioni legali nei confronti dell’ex coniuge, in quanto risultava nullatenente. E per concludere ha poi aggiunto: “Mia figlia ha solo avuto presente la sua costante assenza, come potrei biasimare il fatto che le sia sempre pesato il suo cognome?”.
Il Consiglio di Stato ha però respinto il ricorso del Viminale, considerato “che le motivazioni addotte dalla richiedente sono indicative di una palese divergenza tra la sua identità personale ed il cognome che le è stato attribuito, che costituisce espressione di un vincolo familiare con il padre, che nella realtà non vi è stato; dalla lettura della documentazione prodotta in giudizio emerge in modo palese il solo legame della ricorrente con la madre, unica figura di riferimento che le ha consentito di formarsi un’identità personale, della quale ha chiesto il riconoscimento formale attraverso l’acquisizione del relativo cognome“. “Se si tiene conto dei principi espressi dalla Corte Costituzionale, in tema di identità personale e attribuzione del nome, ci si avvede che si tratta di ragioni serie e ponderate, che avrebbero meritato un maggior approfondimento da parte dell’Amministrazione, specie se si considera che non sono state evidenziate specifiche ragioni di interesse pubblico ostative all’accoglimento dell’istanza”, ha proseguito e concluso la sentenza del 19 settembre.